sabato 26 luglio 2014

Buone vacanze a tutti, il blog si va a riposare...



ci rivediamo verso il 19 agosto, con nuovi castelli di cui parlare....ciaooooooooooooo !!

Il castello di domenica 27 luglio






CASTELNUOVO CILENTO (SA) – Castello

Il borgo, denominato Castelnuovo nel medioevo, apparteneva al feudo di Agnello di Senerchia, a cui fu tolto per fellonia. Nel periodo della dominazione longobarda il castello, insieme a quelli di Castellammare della Bruca, e di Novi Velia, costituì un grande sbarramento alle vie di comunicazione che, a quell'epoca attraversavano la regione. Posto su una collina, in posizione baricentrica rispetto all'intero territorio comunale, dalla quale si domina con lo sguardo la valle dell'Alento fino alla costa, questo borgo sorge intorno a un castello, tra anguste stradine in pietra. Secondo la tradizione, dopo la caduta del castello della Bruca (i cui ruderi e la torre sono ancora visibili sull'acropoli dell'antica Velia), gli ultimi abitanti l'abbandonarono e, risalendo la piana verso l'interno in cerca di un rifugio più sicuro, posero la loro dimora nei pressi di una vecchia fortificazione normanna che da allora, accresciuta dal nuovo flusso, prese il nome di Castelnuovo. La collina sulla quale sorge il paese fu nel passato ricoperta da piccole celle ed eremitaggi di benedettini, di cui di tanto in tanto si trovano dei ruderi. Tale peculiare sistema difensivo, all'interno del quale in virtù della posizione strategica assunta dalle singole fortificazioni era possibile stabilire segnalazioni visive, garantì una validissima protezione delle zone limitrofe. Secondo l'Antonini, il costruttore del castello fu il grande giustiziere del regno di Federico II, Gisulfo di Mannia e risale all'anno mille. La struttura del castello, con l'arco abbassato e le pietre disposte a taglio e a filari, è tipicamente normanna. Con la rivolta dei Baroni di Capaccio, alla quale partecipò anche Gisulfo di Mannia, conclusasi con una sanguinosa repressione, i beni dei Mannia vennero confiscati e Castelnuovo fu assegnato a Guido d'Alemagna, un cavaliere francese della corte di Carlo d'Angiò, morto nel 1297, che fece ricostruire il castello, che era stato saccheggiato e danneggiato, nella versione a noi oggi pervenuta. Fece poi costruire fortilizi simili a quelli di Castelnuovo a Lucera e a Manfredonia in provincia di Foggia. Ci troviamo di fronte ad un'architettura militare di difesa e se osserviamo la torre, possiamo comprendere che doveva servire come ultimo baluardo difensivo quando le altre parti del castello fossero cadute in mano dei nemici ed è molto indicativo che l'ingresso della torre non è al pian terreno, ma è elevato. Il feudo di Castelnuovo col suo castello, scomparsa la casa d'Alemagna nel 1496, venne confiscato per volere di Ferrante II D'Aragona che lo assegnò ai Carafa. Nel 1724 il feudo pervenne alla famiglia dei marchesi Talamo-Atenolfi che tuttora ne sono i proprietari. La rivoluzione del 1799, le guerre napoleoniche non consentirono ai Talamo-Atenolfi una buona manutenzione del castello. Durante i tre terremoti che si ebbero tra il 1850 e il 1857 ci furono diversi crolli ed anche la torre venne gravemente danneggiata. Allora i Talamo-Atenolfi si trasferirono giù nella contrada Pantana, dove avevano un enorme caseggiato, che nel 1848, durante i moti cilentani, fu luogo d'incontro delle numerose colonne d'insorti e nel 1860 la torre di Castelnuovo fu definitivamente abbandonata e con le lesioni provocate dai precedenti terremoti divenne un rudere. Nel 1966 il marchese ed ambasciatore Giuseppe Talamo Atenolfi decise di intervenire sulla struttura per sottrarla alla definitiva rovina e, con la collaborazione del Ministero, nel 1966 vennero eseguiti i lavori di restauro che restituirono al complesso la sua antica fisionomia. Secondo una leggenda, il maniero di Castelnuovo era collegato con il castello di Velia e con altri castelli della zona attraverso dei cunicoli sotterranei. Il castello ha due torri principali di cui una rotonda (identica a quella di Velia ad Ascea Marina) ed una a pianta quadrata. La torre cilindrica, punto di forza dell'intera opera difensiva, ha una base tronco-conica e presenta alcuni particolari costruttivi caratteristici dell'architettura militare angioina, riscontrabili anche nelle vicine e coeve torri di Velia e di Castelcivita: le volte delle coperture intermedie, la stretta scala che si svolge nello spessore murario del corpo cilindrico, le caditoie (beccatelli) realizzate con mensole di pietra sagomata e la comune logica costruttiva in base alla quale queste fabbriche venivano strutturate per la lotta corpo a corpo. Oggi, in giorni prestabiliti, è possibile visitare il castello e godere dell'ampio panorama che ammirabile dalla torre. A fine luglio 2014 ho avuto il grande piacere di visitare questo castello molto affascinante....


Foto: di gianniB su http://rete.comuni-italiani.it e da www.allwebitaly.it .
Le due sottostanti le ho scattate io durante la mia visita nel luglio 2014



venerdì 25 luglio 2014

Il castello di sabato 26 luglio






PISCIOTTA (SA) – Palazzo Marchesale Pappacoda

E' l'anno 915 a segnare la nascita di Pisciotta. Gli abitanti di Bussento, dopo che i Saraceni di Agropoli assalirono, saccheggiarono e diedero alle fiamme il loro villaggio, cercarono scampo sui monti e sulle alture circonvicine. Molti si trasferirono al di là dei promontorio di Palinuro, dove formarono un piccolo villaggio, che chiamarono, in ricordo della perduta patria, Pixoctum, cioè piccolo Pixous. Da Pixoctum si ebbero poi Pixocta, Pissocta e Pisciotta. In realtà la prima notizia certa di un riferimento al toponimo “Pisciotta” si trova in un Diploma di Re Ruggiero, anno 1131, il quale nel definire i confini del Feudo del Monte Centaurino, riferendosi ad una località che serve a definire i confini scrive ”…de pissottanis…” . Il dato curioso che il Diploma scritto in greco, tale era la lingua dotta dell’epoca, riporta il “de pissottanis” in latino. Successivamente , sempre in epoca normanna nel 1144, Pisciotta venne indicata come Feudo che re Guglielmo detto il Malo conferì a tal Niel di Pisciotta. Dopo questa data il nome venne riportato nel Catalogun Baronum. Nel 1464, ancora da Molpa, saccheggiata dai Saraceni, arrivarono profughi che divennero definitivamente pisciottani; questa migrazione costituì il maggior apporto abitativo per il paese. Intanto il regime feudale  che si era instaurato, come abbiamo visto, in età normanna, proseguì indisturbato e fiorente e Pisciotta passò dai Caracciolo ai Sanseverino, poi ai Pappacoda, poi ad un generale spagnolo Sancho Martinez de Leyna, ai Pignatelli, poi ancora ai Pappacoda fino a  giungere ai principi Doria d’Angri con i quali si estinse il feudalesimo perché arrivò Gioacchino Murat che decretò la fine del regime feudale ed impose i Decurionati, creando così i moderni Comuni o Municipi. I fabbricati di fattura medievale di Pisciotta sono sovrastati dalla severa mole dei Palazzo Marchesale, costruito tra il 1600 e il 1700 dai Pappacoda, che si trova sui resti di un antico castello del XII secolo, visibili in una parte dell’antica fortezza oggi adibita ad abitazione civile (lato ovest). Il Palazzo Marchesale ha subito nei secoli diversi rimaneggiamenti, gli ultimi dei quali furono apportati dai Doria d’Angri che ne rifecero la facciata sud alla stregua di quella che ancora oggi è la facciata di Palazzo Doria d’Angri a Napoli in piazzetta VII settembre, all’inizio di via Toledo, lato nord. Un documento rinvenuto insieme ad altri di analogo contenuto presso l'Archivio di Stato di Napoli, consente di collocare in maniera temporalmente esatta e far luce su alcuni particolari riguardanti la ristrutturazione dell’imponente edificio. Il responsabile dei lavori fu mastro Vincenzo Desiderio, di Angri (luogo d'origine del principe Giovan Carlo Doria, marito della principessa Giovanna Pappacoda); lo stesso venne anche incaricato di eseguire i lavori di ampliamento della Chiesa Parrocchiale. I lavori al Palazzo, come si apprende da un altro contratto, si sarebbero dovuti concludere entro la primavera del 1792. A novembre del 1791 però il principe Doria morì, e per questa ragione - probabilmene - non furono completati, in particolare, la costruzione dello scalone e gli intonaci esterni. Di notevole interesse architettonico sono il portale e l’imponente scalone in pietra arenaria, oltre agli archi a tutto sesto e alla facciata. Il palazzo, che ospita la Biblioteca comunale, si affaccia direttamente sulla distesa di ulivi secolari che, come una valanga, degradano a mare fino al piccolo Porto Turistico di Marina di Pisciotta.


Foto: di Massimino Iannone su www.massiminoiannone.it e di Antonio de Angelis su prolocopisciotta.com

Il castello di venerdì 25 luglio







CENTOLA (SA) - Castello in frazione San Severino

Il vecchio abitato di San Severino è un borgo medievale abbandonato sovrastante la valle del fiume Mingardo, che qui scava una stretta forra chiamata Gola del Diavolo. Risale al X-XI secolo e serba tracce delle varie epoche storiche fino al Novecento, conservando le rovine di un castello e di una chiesa. Secondo l'umanista Pietro Summonte, il villaggio prese il nome dalla famiglia Sanseverino, la più potente e ricca nel Principato di Salerno, con i Normanni prima e nel Regno di Napoli poi con gli Angioini e Aragaonesi. Di parere opposto è Giuseppe Antonini, il quale, all'inverso, sostiene che sarebbe stata la famiglia patrizia a prendere il nome dal borgo; la stessa tesi sostengono il Bozza e Domenicantonio Stanziola, prete e storico di Centola del XIX secolo, secondo il quale la potente famiglia dei Sanseverino "si nomò così dal castello e Borgo di Sanseverino". Le fonti storiche esistenti indicano nel VII secolo la probabile origine dell'insediamento urbano nella gola della "Tragara" che sovrasta il fiume Mingardo ad opera di mercenari bulgari emigrati con il loro principe Aztek nel principato longobardo di Salerno, come riferito da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum. Questi soldati furono adibiti al controllo della gola del Mingardo e della principale arteria di collegamento per il Golfo di Policastro che appunto si dipanava per questa gola, garantendo il collegamento con il porto di Palinuro. A quest'epoca risale il primo insediamento con la costruzione di una torre di avvistamento, i cui resti sono visibili dall'alto, e le prime abitazioni per gli armigeri. L'importanza strategica che rivestiva per i Longobardi il possesso del borgo fortificato è testimoniata dall'aspra contesa che vi fu nel 1075 tra il conte Guido di Policastro e Guimondo dei Mulsi. In origine, nel 1054, il castello, con il feudo di Policastro, era stato attribuito a Guido dal Principe di Salerno, Gisulfo II, figlio di Guaimaro V, per ricompensarlo del suo aiuto per ottenere il dominio del Principato; successivamente, però Guimondo, feudatario confinante, avanzò delle pretese sul borgo, sostenendo che doveva essere assegnato a lui. Per risolvere la controversia, i due nobili accettarono di sottoporsi all’arbitrato del principe di Capua, ma Guido non arrivò mai nella città, perché fu ucciso in un’imboscata proprio nella gola del Mingardo dagli sgherri di Guimondo dei Mulsi. La morte di Guido privò il regno Longobardo di uno dei suoi migliori ingegni, “così morì la luce di tutti i Longobardi” scrisse Amato di Montecassino nella sua Storia dei Normanni; dopo questo fatto di sangue, Guimondo occupò il Borgo, ma per ordine regio fu costretto a consegnarlo al fratello di Guido, Landolfo, che ne conservò il dominio fine alla fine del regno Longobardo avvenuta nel 1077, con l’avvento dei Normanni, quando Landolfo conservò i propri domini, ma dovette consegnare i castelli più importanti tra cui San Severino. Con i Normanni (1077–1189) e successivamente con gli Svevi (1189-1266) furono realizzate altre opere di fortificazione, soprattutto da Federico II, il quale dispose la realizzazione della cinta muraria; fu realizzata altresì la chiesa di notevoli dimensioni a picco sullo strapiombo della gola della Tragara. La sua posizione strategica fece sì che durante la guerra del Vespro San Severino diventasse teatro di guerra, in particolare innumerevoli sofferenze soffrì la popolazione per le scorrerie degli Almogaveri, tanto che nel 1291 per disposizione di Carlo II d'Angiò, il paese, assieme ad altri centri del Cilento, venne esentato dal pagamento delle tasse. La tradizione orale parla con riferimento a questo triste periodo di un grande battaglia nella valle del Mingardo, con grande numero di morti e feriti, scontro che portò alla caduta di San Severino e alla sua presa da parte degli Aragonesi. Con l’avvento di questi ultimi (1444), il borgo fortificato, già da anni della potente famiglia dei Sanseverino, essendo venuta meno la sua importanza strategica, anche per lo sviluppo delle armi da fuoco, cadde in decadenza e il castello venne abbandonato; notevole sviluppo ebbe l'insediamento civile, anche grazie all'attività estrattiva di gesso, scoperto nella zona. Nel 1552 i Sanseverino, signori del borgo, per contrasti con il re spagnolo Carlo V, furono esiliati dal Regno di Napoli, riparando in Spagna, mentre il loro feudo del Cilento fu smembrato in tanti suffeudi, venduti dalla Corona al migliore offerente: San Severino fu comprato all'asta dalla famiglia Tancredi, poi nel 1628 passò alla famiglia Albertini di Nola, discendente dalla famiglia Alberti di Prato, poi nel 1794 fu acquistato dalla famiglia Quaranta di Cava che lo tenne fino all'abolizione della feudalità avvenuta nel 1806 ad opera dei Francesi di Napoleone, conquistatori del Regno di Napoli. Nel 1624, gran parte della popolazione morì di peste: è di questo periodo la consacrazione della chiesa alla Madonna degli Angeli, appunto protettrice contro il morbo. Nel corso della prima metà del 1700, venne abbandonata la chiesa cattedrale in quanto la popolazione, a causa delle generali condizioni di povertà e miseria, non poté realizzare i lavori di manutenzione necessari, sollecitati dal vescovo di Vallo della Lucania del 1746. Attualmente, il vecchio Borgo presenta l'accesso principale ostruito da transenne che possono però essere facilmente by-passate. All'interno vi sono tracce di lavori di messa in sicurezza non ancora terminati e la vegetazione spontanea sta prendendo il sopravvento. Del castello ormai resta solo una parte di una torre quadrata e pochi ruderi illeggibili, situati all'estremità occidentale. Da qui è possibile ammirare tutto il panorama circostante. Il palazzo baronale, giunto a noi solo in parte, si distingue per la sua notevole dimensione; occupa la parte più elevata dell'abitato, prossima alla piazzetta di Santa Maria degli Angeli. Risultato dell'aggregazione di due diversi edifici, si articola su tre livelli ed è stato abitato fino agli anni'50. Per approfondire, consiglio i seguenti link: http://www.cilentocultura.it/cultura/severin/severin1.htm, https://www.youtube.com/watch?v=jEIDHbdDaOw&noredirect=1 (video),

http://www.nobili-napoletani.it/Quaranta-San-Severino.htm


Fonti: http://it.wikipedia.org, http://www.paesifantasma.com/website/san-severino-di-centola/, http://www.parcodellacivitella.it/drupal/sites/default/files/San%20Severino%20di%20Centola.pdf

Foto: di G. Zicarelli su http://digilander.libero.it/sc.tecnico/San%20Severino%20di%20Centola.htm e da www.mingardoemiti.it

giovedì 24 luglio 2014

Il castello di giovedì 24 luglio






MARINA DI CAMEROTA - Palazzo Marchesale

Nel 1600 risulta la presenza di una taverna al Capo Infreschi, costituita da sette membri inferiori e sette membri superiori di proprietà di Orazio Marchese nonchè un frantoio con magazzino per riporvi botti d'olio. Nel 1606 in località Il Pozzo, Orazio Marchese fece costruire una chiesa dedicata a San Nicola. Da allora sorsero i primi nuclei abitativi formati da gente rimasta sul posto per motivi di lavoro. L'insediamento e l'incremento vero e proprio cominciò nel 1776 con la costruzione di un palazzo ad uso della cittadinanza. Si narra che il primo a costruir casa a Marina di Camerota sia un tal Gaetano Talamo: un pescatore oriundo di Positano soprannominato vavo scormo (nonno rubicondo). Nella sua abitazione pare sia sato ospitato Gioacchino Murat maresciallo di Francia, re di Napoli. Gaetano Talamo ha donato al paese il cimitero e l'annessa cappella gentilizia nel 1937; i suoi figli Luigi e Salvatore, nel 1874 hanno donato al paese il terreno per la costruzione della Piazza San Domenico e dell'attuale Chiesa di Sant'Alfonso. Il palazzo marchesale (o castello) fu costruito da Orazio Marchese verso la fine del 600 ed è stato tenuto in ottime condizioni dalla famiglia Orsini, che vi costruì l'annessa Chiesa. Fu anche residenza estiva del marchese Sanseverino. Il maestoso edificio è diventato, purtroppo, il simbolo dell'indifferenza e dell'abbandono. Sacralità e tradizioni si sono consumate nel tempo insieme allo storico baluardo invecchiato e avvilito. Un tempo fra quelle mura la famosa festa della Bambinella e la presa della Bastiglia, due ricorrenze che si tenevano all'interno del palazzo, due feste che aggregavano e accompagnavano turisti e cittadini indietro nel tempo. Ora il palazzo è in stato di completo abbandono e necessiterebbe di restauri. «C'erano diverse cose dentro al palazzo - afferma Rino Scarano, un conoscitore della storia di Camerota - dai quadri datati, alle vecchie armature tenute lì esposte. Poi ricordo lunghi tappeti e mobili antichi. Ma come si usa fare spesso dalle nostre parti, appena è stato lasciato tutto incustodito, i ladri hanno portato via la merce. Sono pezzi di storia scomparsi per sempre». C'è stato interesse da parte della cittadinanza nel vedere il palazzo marchesale ristrutturato ed utilizzato: l'idea era quella di creare all'interno spazi ricreativi come ad esempio un oratorio, la biblioteca comunale e diverse sale congresso. Ipotesi rimaste sempre tali anche perchè attualmente il palazzo è privato. E' stato venduto dal Comune a una famiglia che non è del posto. Una raccolta fondi per acquistare e ristrutturare il palazzo marchesale di Marina di Camerota. E' l'idea dell'associazione socio-culturale 'Tuttinsieme'. L'iniziativa è partita ad ottobre 2013. Per due week-end consecutivi 'Tuttinsieme' ha raccolto ben 850 consensi inviati al palazzo dei Beni culturali di Napoli per sensibilizzare l'ente e coinvolgerlo nel progetto. I consensi sono stati imbucati sotto forma di cartoline firmate dai cittadini nelle quattro frazioni e inviate nel capoluogo di regione dall'associazione. E' intenzione dell'associazione di chiedere il ripristino dello stato dei luoghi con l'aiuto di volontari e la sistemazione del giardino che circonda il castello con l'aiuto di botanici professionisti.

Fonti: http://www.prolococamerota.org/marina-di-camerota.html, articolo del 19/04/2013 su
http://www.giornaledelcilento.it/ http://www.giornaledelcilento.it/it/22-10-2013-marina_di_camerota_azionariato_popolare_per_salvare_il_castello-20436.html#.U9DR9LGupho

Foto: da http://www.bellavistacountry.com e di Antonio Caiazzo presa dal gruppo Facebook https://www.facebook.com/pages/Il-Castello-che-SARA/1420497658173121?fref=ts (che vi invito a visitare)

mercoledì 23 luglio 2014

Il castello di mercoledì 23 luglio






CENTOLA (SA) – Castello di San Sergio

La tenuta feudale San Sergio, secondo il sacerdote Don Giuseppe Stanziola, parroco di Centola, prese il nome dalla cappella di San Sergio ivi dislocata. I feudatari di Centola furono i Rosso i quali ebbero la prima signoria, poi Giacomo della Morra, i Di Sangro, con Carlo e Alfonso, visti nel 1456, quando sempre secondo lo Stanziola, vi costruirono la cappella denominata San Sergio. Poi vennero i Caracciolo, di nuovo i Di Sangro con Sigismondo e Ippolita che tra il 1532 e il 1535 vi costruirono un piccolo maniero. Ritornarono alla fine del 1500 ancora i Rosso che, nel 1602, con Ascanio Rosso e poi la figlia Maria, cedettero il Feudo a Mario Rosso e da questi passò a Fulvia Scondito che, nel 1622, per 12000 ducati, vendette il feudo a Domenico Pappacoda, Marchese di Pisciotta e feudatario già di Molpa e Palinuro. Vuolsi che la trattativa avvenne proprio nel maniero di San Sergio, con da una parte il sacerdote Don Luca De Angelis e dall'altra un'amica della Scondito, Sofia Scannuzzi. La situazione economica della Scondito si era appesantita da molti debiti, dovuti alla sua fragorosa vita di bella donna. Sulla cappella di certo vi era la rendita della badia di Centola, ed era retta da un sacerdote. Sappiamo che nel 1587 ne era il sacerdote Don Oreste Cerulli, rimasto fino al 1598, data delle sue dimissioni. Nel 1613 troviamo rettore Don Gianpaolo De Damiano (dimissionario) che lasciò per paura del cattivo stato in cui versavano le mura della cappella. Dall'anno 1622 fino al 1626 la cappella scomparve lasciando in piedi solo qualche rudere; morto il feudatario Giuseppe Pappacoda nel 1773, Principe di Centola e Marchese di Pisciotta, ereditò titoli e beni l'unica figlia Giovanna Pappacoda morta nel 1809. Giovanna Papacoda sposò il Principe Giovancarlo Doria D'Angri; di fatto donna Maria Antonia Doria, erede della Pappacoda vendette il fondo di San Sergio e altre piccole proprietà all'agente del feudo Giovanni Angelo Rinaldi nel 1820. Giovanni Angelo Rinaldi morì nel 1852, celibe, lasciando San Sergio a suo nipote Achille Rinaldi (1823-1876) uomo molto fattivo e positivo; praticamente, sempre al dire di Stanziola, fu lui a trasformare quel piccolo maniero in un palazzo con strutture simili ad un castello. Morto il suddetto Achille, San Sergio passò al figlio Giovanni che a sua volta lo cedette al figlio Achille nato nel 1880 e morto celibe nel 1933. Eredi delle sue proprietà restarono le sorelle; una di queste ebbe San Sergio, ed il suo figlio Michele De Agostinis ne è l'attuale proprietario. Attualmente la struttura è adibita a Bed&Breakfast ed è rinomata. All’interno delle mura del castello affascina il cortile lastricato in pietra, ingentilito da una terrazza panoramica e dalla suggestiva architettura che lo contorna. Nel castello, recentemente ristrutturato, c’è un vero e proprio museo con mobili originali dell’epoca, quadri, imponenti travi in legno che sorreggono i soffitti, letti e decorazioni in ferro battuto.


martedì 22 luglio 2014

Il castello di martedì 22 luglio






CAMEROTA (SA) – Castello marchesale

Nell' Alto Medioevo il territorio strategico di Camerota era una zona di confine fra il Principato Longobardo di Salerno e il tema imperiale bizantino di Calabria. La regione, abbastanza spopolata, ospitava eremiti italo-greci che occupavano le grotte come quella di San Biagio. Insediamenti rurali nacquero vicino alle badie italo-greci di San Cono(one) e quello di San Pietro a Licusati prima dell'inizio dell'XI secolo. Non ci sono indizi che il territorio di Camerota fosse ancora integrato nella notevole espansione economica e demografica del principato longobardo. Non si sa nemmeno se i Longobardi avessero creato una fortificazione con una guarnigione a Camerota. Però si sa che con l'avvento dei Normanni il territorio cominciò ad essere maggiormente popolato e capace di produrre ricchezza. Dopo la conquista di Salerno da parte dei Normanni nel 1076, apparve una famiglia signorile nel territorio, con consistenti proprietà nel Cilento. Florio di Camerota era un funzionario reale molto in vista nel Regno di Sicilia durante la seconda meta del XII secolo. Essendo un territorio strategico, Camerota soffrì molto durante la guerra del Vespro Siciliano alla fine del XIII secolo che finì con la divisione del Regno fra la parte di Napoli e quella di Sicilia. Nel 1552 la cittadina fu devastata e saccheggiata dai Turchi, comandati dal generale Rais Dragut, che assalirono il castello danneggiandolo. Nel 1647 la città, cavalcando la sommossa di Masaniello, si sollevò contro il proprio feudatario, Paolo Marchese, che aveva tentato di ripristinare lo jus primae noctis. La rivolta si concluse con la morte del signore che i camerotani, inferociti, uccisero e fecero a pezzi, disseminandoli poi un pò dovunque. Nel 1828 Camerota aderì ai moti cilentani soffocati dai Borboni. Dal 1811 al 1860 Camerota fu capoluogo dell'omonimo circondario appartenente al Distretto di Vallo del Regno delle Due Sicilie. La parte più alta del borgo è dominata dal castello medievale, che si apre su piazza Vittorio Emanuele III. Verso la fine del XIII secolo ne fu signore Tommaso da Salerno e nella prima metà del secolo successivo Marino de Diano, a cui successe Roberto Origlia, il cui feudo rimase alla famiglia fino al 1404 quando fu dato in fitto ai Borrello e successivamente ai Lancellotti, pur rimanendo sempre un possedimento dei Sanseverino. Passò infine a Francesco Landone figlio del conte di Venafro e, quando Camerota divenne marchesato, fu attribuito alla famiglia de Sangro, poi ai Marchese e agli Orsini. Costituito da un corpo a due piani, era dotato di una torre maestra, collegata visivamente alle altre del territorio, per garantire la difesa dagli attacchi nemici. Si presume che sia stato costruito nel Medioevo. Il castello di Camerota era nel 909 la seconda roccaforte del Cilento, assieme ad Agropoli. Il fortilizio marchesale fu uno dei 150 Munita Oppida. Il maschio principale sembra risalire al periodo normanno (tardo secolo XI-inizio secolo XII). Insieme con la Chiesa italo-greco di San Daniele, formava l'asse originale del più antico rione del paese. Oggi rimangono solo le mura e le torri. Al maniero si accedeva attraverso tre porte, una delle quali (la Porta di Suso) è ancora visibile; le altre (Porta di Santa Maria e Porta di San Nicola) sono invece completamente scomparse. All'interno vi era anche una cappella. Durante dei saccheggi fu dato alle fiamme. In origine fu costruito come residenza signorile. Attualmente l'edificio è in rovina, ridotto in pessime condizioni dall'incuria dell'uomo e dagli agenti atmosferici. Un primo intervento di recupero si è avuto solo alcuni anni fa, grazie all’interessamento dell’amministrazione comunale che è riuscita a beneficiare di un finanziamento di centomila euro stanziato direttamente dal governo. Denaro che non è però bastato a mettere in sicurezza l’intera struttura.

Foto: da www.corriereimmobiliare.com e da www.camerotamuvip.eu. La terza è una cartolina della mia collezione. 

lunedì 21 luglio 2014

Il castello di lunedì 21 luglio






LICUSATI (SA) - Castello di Montelmo

Quali furono le antiche origini di Castelluccio (Castello di Montelmo) nessuno è riuscito mai a conoscere, così come il motivo del suo abbandono. Però nelle “Notizie storiche su Policastro Bussentino” del Sac. Don Giuseppe Cataldo, a pag. 19. si legge che nel 1079, con il nome di Castellum De Mondelmo quella comunità era già stata elevata al grado di parrocchia alle dipendenze della diocesi di Policastro. Nell’anno 1840 nel libro “Calabria – Sicilia” di Asthur Johan Strutt a proposito della descrizione del costone ove sorgeva Castelluccio, si legge: “…alcune abitazioni, mezze fortificate fattorie mostrano, qua e là, le loro malinconiche torri”. Ciò conferma che molto prima del 1800 la popolazione di Castelluccio si era già trasferita altrove. Oggi, a chi, lungo la tortuosa e panoramica strada del “ciglioto” percorra il tratto che dalla “sellata” scende fino al fiume Mingardo, si presentano allo sguardo i vecchi e diroccati ruderi di questo antico paese come braccia bruciate e monche, protese verso il cielo, in una invocazione di giustizia e di vendetta. Un masso solitario, staccato dal fianco roccioso del monte, a picco sul fiume Mingardo, con uno strapiombo di oltre 200 metri, conserva gelosamente le testimonianze di una vita laboriosa distrutta da una crudeltà devastatrice tipicamente medioevale. Vi è ancora la porta fortificata e merlata. la stradetta di svincolo per le case, la cisterna pubblica e la terrazza panoramica nonchè la chiesetta parrocchiale con tutte le mura perimetrali. Se ti arrischi a salire lassù ricevi un’emozione straordinaria. Ti sembrerà di esserti staccato dalla terra ed essere rimasto sospeso, a mezz’aria, tra mare e cielo, in compagnia di uomini pietrificati, in un mondo fermatosi nel tempo. Nell’incanto del luogo, all’ora del tramonto, ti sembra sentire ancora lo stridere del ponte levatoio, calato per far passare le gioiose giovanette che vanno ad attingere l’acqua alla vicina sorgente di acqua fredda e la rumorosa operosità di quanti son rimasti in paese, mentre, a poco a poco, sembra anche di vedere lungo la strada e nei vani vuoti delle sgangherate finestre, uomini e donne, fissi a guardare l’intruso con espressioni di curiosità, quasi di ostilità, di esseri che non conoscono e che considerano a loro estranei. Le case riprendono l’aspetto normale e la vita a Castelluccio, ricreata dalla fantasia, ripopola quei ruderi altrimenti abbandonati da secoli. L’azzurro del cielo va sempre più intensificandosi mentre, giù all’orizzonte il sole ed il mare si tingono di rosso ed i costoni rocciosi che fiancheggiano il Mingardo, man mano che l’astro tramonta, si tingono del dolore del corallo ed una musica soave e giuliva fatta di trilli e gorgheggi saluta l’inizio dell’imminente nottata e la fine di un sogno ad occhi aperti sognato.

Fonti: http://raffaelegalato.wordpress.com/castelluccio/, http://lnx.walterweb.info/cusatis/img/13/gall.php

Foto: da www.camerotamuvip.eu e da http://web.tiscali.it/giacomociociano/ESCURSIONE%20n%203.htm

sabato 19 luglio 2014

Il castello di domenica 20 luglio






PRIGNANO CILENTO (SA) – Castello Cardone

Che Prignano fosse uno dei più antichi casali del Cilento è cosa provata dalla testimonianza di alcuni documenti. Nell’anno 796, infatti, venne donato da Agismondo, principe di Salerno, ai monaci della Badia di Cava. I Benedettini, a causa della loro ammirabile operosità e del fervore religioso, popolarono tutte le terre del Cilento durante il dominio Longobardo. Essi fissarono la dimora in rustiche celle solitarie, poi si dedicarono alla costruzione di molte chiese e conventi, trasformando così i secolari boschi di querce in fecondi vigneti e uliveti. Da alcuni ritrovamenti di reperti archeologici, quali monete greche e romane, tombe con vasellame bianco e figure dipinte di nero, grandi tegoloni di tufo pestano, muriccioli di leggeri laterizi, si può desumere che le origini di Prignano potrebbero risalire a tempi antecedenti proprio al 1796. Il feudo è poi ricompreso tra i territori restituiti nel 1276 da Carlo II d’Angiò alla famiglia Sanseverino. Successivamente, Prignano venne ceduto da quest’ultima ad Antonello Prignano, il cui nipote Fabio lo alienò nel 1458 a Prospero Lanara. A seguito di altri passaggi, il feudo, comprensivo dei villaggi di Melito e di Poglisi (oggi scomparso), venne acquistato nel 1564 dal poeta napoletano Bernardino Rota. Nel 1649 passò a Pietro Brandolino, che nel 1701 lo cedette a Tommaso Cardone, di origine spagnola, che vi ebbe il titolo di marchese. La famiglia Cardone, che risulta iscritta nel Libro d’oro della nobiltà italiana (1933) col titolo di Marchese di Melito e del Predicato di Prignano, ne mantenne il possesso fino all'abolizione del regime feudale. Proprio ai Cardone è intitolato il sontuoso palazzo marchesale situato in Piazza del Plebiscito, di fronte alla Chiesa di San Nicola di Bari, costituito da quattro ali intorno ad un cortile centrale e che appare in tutta la maestosità con i suoi terrazzi, i comignoli, il vecchio parafulmini. La facciata è caratterizzata da una robusta torre cilindrica merlata, elemento di sicura originalità, in quanto non rinvenibile in altri palazzi coevi che costellano il territorio del Cilento. Il palazzo è di proprietà privata e non è visitabile. L’edificio fu costruito verso i primi anni del 1600 e durante l’ultima guerra mondiale (1940-1943) venne adibito ad ospedale militare dalle truppe tedesche dislocate a difesa della costiera cilentana.

Foto: da http://www.mercatocilento.it/gallPrignano.aspx e di Santino su http://rete.comuni-italiani.it


venerdì 18 luglio 2014

Il castello di sabato 19 luglio








CANNALONGA (SA) – Palazzo Ducale Mongrovejo e Palazzo Torrusio

Cannalonga fu edificata – quasi certamente - dagli abitanti di Civitella intorno al 1000. Appartenne allo Stato di Novi fino al 1452 quando Giovanni Antonio Marzano, signore di Novi, donò il casale a Giovanni Antonio Martirano. In seguito il feudo passò ai duchi di Monteleone, divenuti signori di Novi. Cannalonga ebbe notevole importanza a partire dalla metà del secolo XV per merito della Fiera di Santa Lucia, un grande mercato che tuttora vi si tiene ogni anno a settembre; ma la sua importanza crebbe ancor più durante il secolo successivo, poiché il Banco della Giustizia di cui era sede, ebbe giurisdizione su gran parte del Cilento montano. Nel 1572 il feudo di Cannalonga fu acquistato da Giovan Battista Farao di Cuccaro (facoltoso segretario del Duca Camillo Pignatelli Junior), la cui famiglia lo tenne in signoria fino alla morte di Scipione Farao. Questi lo donò a Vincenzo Macedonio, barone di Cannalonga. Nel 1680 il feudo fu ricomprato da Don Filippo Farao il quale, avendo dato in sposa la figlia Maria a Don Toribio Alfonso Mongrovejo, nobile di origine spagnola, le assegnò come dote le terrre di Cannalonga. Il più illustre fra i membri della nobile famiglia Mongrovejo fu Toribio di Lima, arcivescovo della città latinoamericana e Primate della Chiesa del Perú. Questi morì nel 1680, fu canonizzato e divenne il Santo Patrono del Paese e dei vescovi della Chiesa latinoamericana. I Mogrovejo riuscirono ad elevare il feudo di Cannalonga a ducato con l'aiuto di una vendita fittizia a tal don Giacinto Falletti che nel 1713 si fregiò del titolo di Duca di Cannalonga (e nello stesso anno acquistò anche il feudo di Sicignano degli Alburni). Nel 1738 in onore di suo zio il Mogrovejo favorì San Toribio come santo protettore in sostituzione di S. Onofrio fino ad allora Santo patrono di Cannalonga da tempi remoti. Nel 1756 il Barone don Toribio Mogrovejo in virtù del fatto che Cannalonga era già ducato ottenne dal Re la concessione ufficiale di Ducato e la sua investitura a Duca considerando anche le sue nobili discendenze e i meriti acquisiti dalla sua famiglia in 900 anni di fedeltà alla Reale Casa di Spagna. L'ultima discendente dei Mogrovejo abita ancora oggi nello splendido Palazzo Ducale che fu ristrutturato ed ampliato nell'800. L’edificio, risalente al secolo XVI, è munito di torri e di un cortile ricco di affreschi e statue di marmo della dinastia. Ma è la struttura architettonica, appariscente per la sua mole, di palazzo Torrusio a destare l’interesse maggiore, dopo aver svoltato per un vicolo che finisce diritto in piazza e aver varcato l’arco d’ingresso che unisce le due ali dell’attuale costruzione. Un’imponenza che colpisce l’occhio e che testimonia ancora oggi il nobile passato del paese. Costruito sui resti di casa De Ticchio, fu dimora del vescovo Vincenzo Torrusio, plenipotenziario alla corte dei Borboni di Napoli.


Le prime due foto riguardano Palazzo Ducale: la prima proviene da http://www.isnovivelia.it, la seconda è di Mimmo Benivento su http://www.panoramio.com

La terza foto, di Mimmo Benivento su www.comune-italia.it e la quarta foto, di salvatorenrico su http://www.panoramio.com, si riferiscono invece a Palazzo Torrusio

Il castello di venerdì 18 luglio






SANT'ANGELO A FASANELLA (SA) - Castello baronale

Giungendo a Sant'Angelo si nota immediatamente lo sperone roccioso che emerge con evidenza, con le caratteristiche laminazioni del calcare locale, rocca naturale sulla quale sorge il castello baronale, isolato e ormai abbastanza malridotto dopo il terremoto del 1980. L'edificio occupa la parte preminente dell'abitato più antico, lasciando ai suoi margini solo poco più che delle ripide scarpate, in gran parte inaccessibili. Il castello utilizza, insomma, la quasi totalità della superficie disponibile, avendo all'ingresso una vasta corte esterna di forma trapezoidale, che costituisce il 'guasto' o largo del castello, a fini di difesa, tipica di tali strutture soprattutto nella loro più antica organizzazione. Poiché la superficie disponibile sulla terrazza naturale non consentiva lo sviluppo con corpi di fabbrica estesi sui quattro lati, il fabbricato fu articolato già in origine, prima delle modifiche successive, come una L rovesciata fortemente allungata, il cui braccio maggiore seguiva il bordo meridionale del pianoro, mentre il braccio minore, cui si affiancarono corpi di fabbrica secondari, fronteggiava il paese verso sud ovest, dove - sotto la ripida scarpata naturale - un breve spazio destinato ad orto e uliveto costituiva un'altra piazza a ridosso delle basse mura meridionali. Le corti avevano perciò una configurazione parzialmente aperta verso nord, dove la forte pendenza e gli strapiombi della roccia rendevano l'accesso molto difficile. L'edificio attuale conserva solo limitatamente l'aspetto di quello che doveva essere l'antico impianto. Nella facciata meridionale verso valle, corrispondente al lato più lungo del fabbricato, si riconoscono le tracce di importanti trasformazioni subite dall'antico edificio nel corso dei secoli; in particolare una notevole variazione nella disposizione e nel numero delle aperture, originariamente più piccole, corrispondente alla successiva destinazione a palazzo patrizio, già verosimilmente alla fine del XVI secolo. Di rilevante interesse urbanistico è l'insediamento della chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore, su di uno sperone naturale accanto al castello, posta quasi di fronte all'ingresso della prima corte. Qui si spezza l'antica via della Chiesa o via Roma per riprendere più giù, con le prima case dell'antico abitato subordinato al castello, dove la strada conserva ancora il toponimo medioevale di "via piedi la terra". La conferma della posizione centrale e dominante del castello viene dall'estensione del territorio che lo circonda, ancora in parte munito di mura e resti di torri, come verso la via comunale dei "Iardini", altro toponimo che ricorda le sistemazioni a terrazze ortive di questo lato del paese e del terreno competente al castello. Tornando alla configurazione della fabbrica, è evidente la sua organizzazione a corti successive, rispetto alle quali era ancora possibile, per tutto l'Ottocento, se necessario, apprestare una difesa costituita da sbarramenti successivi, prima di giungere alla scala che conduce agli appartamenti. Di tale organizzazione difensiva è oggi visibile soprattutto la torre angolare, ancora provvista di saettiere e mensole delle caditoie, ma priva del coronamento della merlatura; altre saettiere si riconoscono lungo il muro perimetrale sul prospetto orientale, raggiungibili un tempo con passerelle in legno oggi scomparse, ma di cui si notano ancora i fori d'imposta. Il castello attuale deve la sua costruzione al ripristino del potere feudale nella zona, dopo che Federico II di Svevia - in seguito alla congiura di Capaccio, cui parteciparono Pandolfo e Riccardo di Fasanella - ebbe raso al suolo molti dei villaggi della baronia, e certamente quindi anche la sede fortificata di Fasanella, posta su di una collina a circa due chilometri dalla sede attuale. Ai primi del Trecento esisteva ancora un villaggio con questo nome, superstite della vendetta, insieme al più importante villaggio di Sant'Angelo, accresciuto dai profughi del primitivo centro abitato. P. Ebner, in "Chiesa baroni e popolo nel Cilento", ricorda che la località nella quale si osservavano ancora alla fine del Settecento i ruderi di Fasanella era denominata "santa Manfreda" e si trattava anche del luogo nel quale, dai tempi più antichi, si faceva tradizionalmente il mercato; qui era anche una cappella dedicata a San Manfredo, ricordata in un inventario del 1616. Il castello di Fasanella, dunque, è quello nel quale fu inflitto a Teobaldo Francesco, Riccardo e Roberto di Fasanella, oltre a Gisulfo di Maina, Guglielmo Sanseverino, Goffredo di Morra e 150 tra soldati, balestrieri e familiari la terribile mutilazione dell'accecamento e della recisione del braccio, in seguito alle quali torture morirono, prima di essere condotti dinanzi al re. Pandolfo scampò alla cattura fuggendo a Roma, dove aveva ottenuto la protezione del Pontefice Innocenzo IV. È verosimile che al suo rientro con l'avvento di Carlo d'Angiò, non si sia dedicato alla costruzione di un castello che non sarebbe mai stato occupato dalla sua famiglia, dal momento che la moglie era già morta, e senza lasciare eredi. Più probabile è che i beni di Sant'Angelo, pervenuti nuovamente alla corona alla morte di Pandolfo, abbiano cominciato a subire una sistematica organizzazione anche residenziale e militare, in conseguenza della loro identità feudale, quando furono concessi a Tommaso Sanseverino. Certamente, ancora nel 1339 Sant'Angelo era un suffeudo di Bartolomeo Sanseverino, cosa che non lascia supporre una tale autonomia da giustificare la costruzione di un castello. Fu perciò solo con il secondo Tommaso Sanseverino, che acquistò il feudo nel 1426, che il luogo acquisì piena e centrale identità amministrativa. La struttura attuale mostra infatti elementi che non è agevole far risalire molto più indietro nel tempo, mentre - come si è detto - assai numerosi sono stati invece gli interventi successivi. Tra il 1426 ed il 1528, quando la baronia di Fasanella fu venduta dal Principe di Bisignano Pietrantonio di Sanseverino al duca di Martina G. Battista Caracciolo, il toponimo di Fasanella non è più menzionato né tra le località maggiori né tra i casali. Segno evidente che nel frattempo la costruzione del castello a Sant'Angelo ed i successivi ampliamenti avevano indotto anche gli ultimi abitanti di Fasanella ad abbandonare il loro villaggio rudere (o vi erano stati costretti), per ridursi nel borgo maggiore che ormai aveva assunto in pieno la funzione di sede feudale. Dell'impianto dei primi del Quattrocento sussistono certamente, oltre la torre angolare con caditoie, i locali sotterranei, tra i quali due segrete, coperti a botte e formanti un unico ambiente separato da un arcone, accessibili per mezzo di una rampa di scale dalla prima corte interna; provvisti di finestre che si aprono al termine di profonde lunette ogivali, essi dovettero essere adibiti a celle carcerarie, per essere poi adattate ad altri usi con la costruzione di un poggiolo perimetrale, forse negli anni ricordati da una data dipinta presso l'ingresso (1619). Anche le due cisterne, ricavate nella parte estrema della fabbrica, verso il suo fronte settentrionale, sono antiche e direttamente connesse con l'attività dei locali sovrastanti, destinati a mulino, cantina vinaria e olearia e cucina dei famigli. L'ubicazione delle cisterne fa pensare che si sia sfruttato opportunamente il dislivello della roccia, che verso il fronte occidentale è fortemente accentuato, per ridurre il lavoro di scavo e utilizzare il materiale già sul posto per l'erezione del muro perimetrale. I contrafforti visibili su questo lato sono il risultato di interventi provvisionali conseguenti a danni di antichi terremoti, ma risalgono al più tardi al XVII-XVIII secolo. Al piano terra, come già accennato, l'edificio conserva gran parte degli ambienti originariamente destinati all'attività agricola ed agli usi rustici. Così, subito a destra nella prima corte, lo spazio su cui un tempo prospettava una torre quadrangolare (oggi poco riconoscibile, a destra dell'androne di accesso alla seconda corte), fu sistemato forse già nel Settecento come "trappeto" o frantoio per le ulive; vi si conserva gran parte dell'attrezzatura molitoria originale. Di fronte, sempre a piano terra, sono alcuni grandi locali di rimessa; mentre, al di là dell'androne, subito dopo la scala, i locali terranei sono stati adibiti, tra Cinquecento e Settecento, a cantine vinarie (cellai) e olearie, dove si conserva l'originaria attrezzatura dei grandi orci in terracotta murati tutt'intorno all'ambiente. Superata la seconda corte, che ha un lato protetto da uno sperone roccioso e da un muro, verso settentrione, si accede ad un altro profondo androne, che corrisponde all'ala estrema della costruzione. Questa doveva inizialmente arrestarsi in corrispondenza dell'accesso alla grande stalla, costruita verosimilmente più tardi, e disposta trasversalmente, come corpo aggiunto. Al piano superiore vi è l'appartamento ducale, di sviluppo volumetrico inferiore al corpo principale e coperto da una falda autonoma. Una sorta di loggia, cioè, in corrispondenza dell'appartamento della duchessa, i cui vasti ambienti guardavano la Terra sottostante e il paesaggio lontano degli Alburni verso Roccadaspide. Altri locali, anch'essi adibiti a stalla, si trovano sulla sinistra dell'androne, mentre a destra vi è il mulino a macina già ricordato. La scala, aperta subito dopo il primo androne, in posizione coperta, raggiunge il salone principale, dove quattro grandi aperture guardano due la valle e due la montagna. Il salone, oggi in condizioni di estremo degrado per i crolli successivi al terremoto e per i danni prodotti dalle piogge, aveva una copertura a travi in vista, rivestita interamente da strisce di cartapecora sulle quali era dipinta a tempera a vivaci colori una ornamentazione a grottesche floreali, con piccole figure di angeli dal volto femminile, alternate a semplici riquadrature. Tipicamente seicentesca nel gusto e nel soggetto dell'ornamentazione, questa graziosa decorazione popolare è oggi andata pressoché totalmente perduta. Nel salone, al centro della parete meridionale, fu realizzata, in tempi non remoti, una cappella familiare, chiudendo forse un grande camino, della cui canna sussistono ancora in facciata le mensole in pietra. Dal salone, verso sinistra, si attraversa un piccolo ambiente di passaggio coperto con volta a padiglione lunettato, un piccolo camerino di attesa e di sosta, prima di accedere alle camere del piano, costituenti l'appartamento baronale vero e proprio, con le sale di rappresentanza e di soggiorno. Esse sono riccamente ornate da una decorazione a tempera databile tra la fine del Seicento ed i primi del Settecento, tipicamente rococò, che è organizzata come una grandiosa quadratura architettonica di portali, nicchie e grandi finestre finte e cornici mistilinee, che inquadrano sulle pareti principali scorci paesistici di fantasia, con torri, porti, campagne, imbarcazioni, vagamente cineseggianti. Se l'ornamentazione degli ambienti dell'appartamento ducale colpisce per la forza e la disinvoltura degli effetti prospettici e del cromatismo dei suoi toni bruni e dei colpi di luce, allusivi alla materialità del costruito, sia pure effimero, gli ambienti di destra rivelano una ulteriore singolarità; quella di essere stati decorati a servizio di una quadreria, realizzando cioè attorno ai dipinti (di cui oggi non sussiste più alcuna traccia) una ulteriore cornice di sinuosi profili concavo convessi, candeliere, cartocci, che si estende anche qui sino al soffitto, lasciando in basso uno zoccolo di circa un metro, modernamente rifatto, come nell'appartamento ducale. La decorazione deve essere fatta risalire al tempo in cui, pervenuto il feudo in potere della famiglia Capece Galeota, di cui si vedono i grandi stemmi in capo alle porte di comunicazione dell'appartamento ducale, si effettuarono grandi lavori di riattazione e trasformazione, ai quali è da ascrivere anche la costruzione del corpo aggiunto sull'aia occidentale, di cui si è detto, con l'alcova della duchessa. Ciò sarebbe quindi avvenuto quando, acquistato il feudo all'asta dopo il fallimento dei Giovane dopo il 1663, Giacomo Capece Galeota, reggente del Collaterale, vi ottenne il titolo di duca nel 1664. Sposata Eleonora Carafa, si costituì nuovamente un casato nobiliare di Sant'Angelo, al quale si deve verosimilmente la sistemazione del castello e soprattutto la sua ornamentazione. È probabile che già a quel tempo si rendesse necessaria anche l'utilizzazione del sottotetto, come guardaroba e ambienti per la servitù, sicché all'appartamento dell'ultimo piano, di altezza netta inferiore e munito di semplici finestre, fece riscontro una più modesta sistemazione del sottotetto, per la parte immediatamente sovrastante al salone ed alle stanze della quadreria, tinello e cucine. Si spiegano così le tracce di camini e rudimentali servizi igienici che sono ancora presenti in quest'ala. La quadreria è anche l'unico ambiente che si apre sulla valle con un piccolo ma singolare terrazzo, il quale sfrutta probabilmente quanto restava di una torre angolare, avendo al di sotto anche una postazione per una piccola bocca da fuoco o un cunicolo di sortita, non meglio identificabile senza opportuni saggi. Il castello di Sant'Angelo fu acquistato dalla famiglia Leggio (che ancora ne ha il possesso) dopo il 1816, in seguito alle leggi eversive della feudalità del Bonaparte. Ha subìto gravissimi danni in seguito al terremoto del novembre 1980 ed ai successivi; ma ancora più gravi sono stati i danni provocati dal conseguente abbandono, che ha comportato crolli ulteriori e il deterioramento di buona parte dell'apparato ornamentale ora descritto, pur essendo stato vincolato come edificio di interesse storico artistico, insieme con il territorio che lo circonda.

Fonte: http://phasanella.altervista.org/index.php/castello.html

Foto: da http://www.parks.it/parco.nazionale.cilento/gallery_dettaglio.php?id=9242 e di Costa del Cilento su http://www.panoramio.com

mercoledì 16 luglio 2014

Il castello di giovedì 17 luglio






CENTOLA (SA) – Castello della Molpa e torre della Marinella

Molpa è un'antica città che sorgeva a circa 1 km da Capo Palinuro, sopra l'altura compresa fra i due fiumi Lambro e Mingardo. Abitata sia in epoca greca, sia in epoca romana, iniziò a decadere nel Medioevo. La città fu presa prima dagli Ostrogoti e poi, nel corso della guerra gotica (535-553), fu distrutta nel 547 da Belisario, generale bizantino. I superstiti si rifugiarono presso vari monasteri dei dintorni, concorrendo alla fondazione di alcuni paesini tuttora esistenti, tra cui Centola. Molpa fu rifondata nel XI secolo dai Normanni, che ricostruirono l'abitato sul colle (140 metri s.l.m.). Nel 1113 Molpa subì una prima invasione ad opera dei pirati saraceni. L'abitato fu dunque fortificato dai Normanni con robuste difese tra cui il Castello della Molpa, una possente rocca i cui resti sono visibili ancora oggi. Nel corso del XII secolo a Molpa fu edificata la chiesa di San Giuliano, di cui ancora oggi restano alcuni ruderi. I Normanni amministrarono il territorio fino al 1189. A partire da questo anno e fino al 1268 fu sotto la giurisdizione degli Svevi, a cui succedettero gli Angioini fino al 1435. Gli Angioini potenziarono ulteriormente le fortificazioni che formavano con i castelli di Palinuro e di San Severino una cinta difensiva che si rivelò di importanza vitale nella guerra contro gli Aragonesi. Le difese però non resistettero all'invasione dei pirati Saraceni, noti come Corsari d'Africa, che all'alba dell'11 giugno 1464 la rasero al suolo, facendo schiava la sua gente (coloro che riuscirono a fuggire trovarono rifugiò nell'entroterra ed in particolare a Centola ed a Pisciotta) e decretando per sempre la fine dell'abitato di Molpa. Nel 1554, il territorio di Molpa, insieme alle terre di Palinuro e di Pisciotta, fu acquistato per 17.000 ducati dal nobile spagnolo don Sancio Martinez de Leyna, capitano generale delle regie galee del egno di Napoli, che vi edificò alcune torri costiere per offrire protezione alla popolazione dell'entroterra e sicurezza ai naviganti. La torre della Molpa, o della Marinella, è ubicata alla foce del fiume Lambro in posizione leggermente sopraelevata rispetto al livello del mare. La collocazione della torre aveva lo scopo di impedire ai pirati Saraceni l'approdo, il rifornimento di acqua potabile e lo sfruttamento delle vie fluviali offerte dal Lambro e dal Mingardo per le incursioni nell'entroterra del Cilento. Il problema dei pirati era particolarmente sentito in quegli anni, dal momento che essi furono responsabili di numerose drammatiche scorribande in territorio campano (dopo l'incursione del 1464 che distrusse la stessa Molpa, memorabili furono quella del 1532 ad opera di Ariadeno Barbarossa e del 1552 ad opera dei corsari di Dragut). Già nel 1546 Pirro Antonio Licterio, ufficiale della Regia Camera della Sommaria, aveva sostenuto l'importanza della costruzione nel territorio di Pisciotta e della Molpa di torri difensive, che avrebbero garantito una maggiore sicurezza del territorio dagli assalti dei Saraceni e consentito la rinascita dell'antico abitato. Occorrendo al de Leyna i denari per le spese di fabbrica, guardia ed armamento, egli chiese al viceré spagnolo di esigere un contributo nelle spese sia da parte delle università e terre convicine, sia da parte dei mercanti che si recavano alla fiera di Salerno (conosciuta come fiera di San Matteo). Inoltre il de Leyna chiese la concessione dei diritti di ancoraggio, falangaggio ed alboraggio da parte di tutte le navi approdanti, ossia il pagamento di una somma di denaro per le navi ancorate in porto (diritto di ancoraggio), il pagamento per l'attracco delle barche al palo piantato sulla riva (diritto di falangaggio) ed il pagamento in proporzione alle vele per l'ingresso dei velieri in porto (diritto di alboraggio). La richiesta del de Leyna non ebbe esito e nel 1578 il feudo di Molpa e Palinuro, con la terra di Pisciotta, fu venduto per 30.000 ducati a don Camillo Pignatelli, vicerè di Sicilia. Nel 1583 la proprietà fu venduta dai Pignatelli ad Ettore Maderno di Monteleone, che a sua volta nel 1602 la vendette ad Aurelia della Marra, moglie di Cesare Pappacoda. La famiglia dei Pappacoda tenne il feudo di Pisciotta, Molpa e Palinuro, divenuto frattanto marchesato, fino al 1806. Per la mancanza di investimenti, la torre della Molpa, edificata solo parzialmente, fu abbandonata ed oggi rimangono pochi resti informi della parte basamentale, chiaramente a pianta quadrata. La città di Molpa non è mai più stata rifondata. Delle varie storie e leggende legate alla Molpa, la più nota è quella di donna Isabella Villamarino, aristocratica e, secondo la leggenda, bellissima fanciulla (anche se in realtà pare fosse di statura non molto alta e neanche troppo graziosa). All'età di soli dieci anni, per volere del padre Bernardo, conte di Capaccio, ammiraglio e luogotenente del regno, Isabella sposò il coetaneo Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e discendente dei Sanseverino, la prima delle sette grandi Case del Regno di Napoli. Da questo matrimonio di interessi nacque però una splendida storia d'amore, che si interruppe bruscamente nel 1552 quando Ferrante litigò col viceré don Pedro de Toledo, che lo accusò di infedeltà all'imperatore Carlo V. Lo sposo, condannato a morte e alla confisca dei beni, fu costretto ad abbandonare il Regno di Napoli, non riuscendo a tornare dalla moglie, la quale privata del suo amore si gettò dalla collina della Molpa. La leggenda vuole che il fantasma di donna Isabella continui ad agirarsi sulla Molpa in cerca del suo perduto amore.
Fonte: http://it.wikipedia.org

Il castello di mercoledì 16 luglio






SANT'OLCESE (GE) - Forte Diamante

Posizionato sulle alture tra la Val Polcevera e la Val Bisagno, a (624 s.l.m.), prende il nome dal monte su cui è stato eretto tra il 1756 e il 1758 su proposta dell'ingegnere Jacques De Sicre, come posizione avanzata per controllare le mosse del nemico nelle valli sottostanti. E' la più arretrata delle strutture difensive che circondavano la città di Genova. Documenti che indicano la presenza in vetta al Monte Diamante, di antiche posizioni militari si hanno fin dal 1395 con la "Bastia del Pino", di cui non si ebbero però più notizie. La postazione tornò alla ribalta durante l'assedio austriaco del 1747, quando fu costruita una piccola ridotta palizzata a forma di stella per sorvegliare le valli da eventuali incursione austriache. Nel 1756, il Magistrato delle Fortificazioni della Repubblica, su incoraggiamento del Marchese Giacomo Filippo Durazzo, chiese all'Ingegnere dell'Infante di Spagna, De Sicre, all'ingegner De Cotte ed al Maresciallo Antonio Federico Flobert, la progettazione e la realizzazione di un Forte costruito sulla sommità del Monte Diamante. Il 2 giugno dello stesso anno furono approvati i disegni di De Cotte, e si diede inizio ai lavori, che ebbero un periodo di sospensione a causa di dissidi sull'esproprio dei terreni su cui doveva sorgere, ma l'importanza strategica e la volontà di Durazzo (che contribuì generosamente all'edificazione del Forte), contribuirono all’ultimazione dell'opera nell'anno 1758. A dimostrazione dell'impegno di Giacomo Durazzo, la Repubblica appose all'ingresso del Forte una targa oggi scomparsa con su scritto: « Forte dedicato ai Divi Giacomo e Filippo, costruito l'anno 1758 a spese di Giacomo e Filippo Durazzo amantissimi della Patria.». Due disegni della raccolta "Mappe e Disegni" dell'Archivio di Stato di Genova risalenti alla fine del Settecento, mostrano il Forte Diamante leggermente dissimile da quello attuale; le maggiori differenze sono la presenza di un tetto a falde in tegole di ardesia a copertura della caserma interna e in alcune parti delle mura di recinzione, oltre alla mancanza della caratteristica torre semicircolare, che sarebbe stata costruita negli anni venti dell'Ottocento. La copertura, a causa dell’esposizione ventilata del forte, necessitava di continua manutenzione, quindi nel periodo Napoleonico il tetto fu sostituito da una terrazza con caditoie utilizzabile come ulteriore elemento difensivo. Nella primavera del 1800 il forte, difeso dai francesi della 41ª Demi-Brigade del comandante Henri Gatien Bertrand fu al centro di un violento combattimento quando gli austriaci, guidati dal Luogotenente Generale Conte di Hohenzollern, vi avevano posto un feroce assedio; il 30 aprile gli austriaci, con un attacco fulmineo, conquistarono le allora semplici 'ridotte' dei "Due Fratelli" e il Conte di Hohenzollern intimò la resa al Bertrand con le seguenti parole: « Vi intimo, Comandante, di rendere all'istante il vostro Forte, altrimenti tutto è pronto ed io vi prendo d'assalto e vi passo a fil di spada. Potete ancora ottenere una capitolazione onorevole. Davanti a Diamante alle 4 di sera. Conte di Hohenzollern.». La risposta determinata di Bertrand non si fece attendere: « Signor Generale, l'onore, che è il pregio più caro per i veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando, di rendere il Forte di cui mi è stato affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimidazione, e mi sta troppo a cuore Signor generale, di meritare la Vostra stima per dichiararvi cha la sola forma e l'impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare. Bertrand. ». Testo originale rieditato nel 2006 da Compagnia dei Librai (vedi note), Genova, con tre saggi specifici di Marco Vecchi (reenactor e ricercatore) e varie illustrazioni. Il presidio francese del Diamante (250 soldati..?) non si arrese e grazie all'intervento del generale Nicolas Jean-de-Dieu Soult, secondo del Generale in Capo la piazza di Genova (il futuro Mar.llo Andrè Massena) partito dal Forte Sperone con due colonne di fanteria di linea, gli austriaci furono ricacciati alle posizioni di partenza. Alla battaglia parteciparono anche alcuni patrioti italiani tra cui il giovane poeta Ugo Foscolo, luogotenente della Repubblica Cisalpina, che fu ferito durante l'assalto alle posizioni austriache dei Due Fratelli. Nel 1814 con l'annessione della Liguria al Regno di Sardegna, furono approvati nuovi interventi al Forte, con l'inserimento di nuove caditoie, l’ampliamento della caserma centrale e la costruzione della torre semicircolare con all'interno una scala elicoidale, retrostante la caserma, usata per raggiungere la terrazza. Qualche scaramuccia si registrò durante i moti popolari del 1849, ma l'ultimo fatto di rilevanza si ebbe nel 1857 quando un gruppo di rivoltosi mazziniani, tentò di occupare il forte dopo aver assassinato un sergente, ma l'azione non durò a lungo e il fallimento dei moti che contemporaneamente dovevano aver luogo in città portò alla fine dell'azione sul Diamante. La fortificazione fu abbandonata definitivamente dal demanio militare nel 1914 e mai più utilizzata, abbandonando la struttura al degrado, salvo alcuni limitati interventi conservativi a cura del comune di Sant'Olcese; oggi l'interno della struttura non è visitabile e chiuso al pubblico. All'interno del forte, posizionato su un terrapieno, si trovano la caserma a tre piani, utilizzati come cappella, magazzino e camerate per la guarnigione che poteva variare da 40 a 100 uomini. Il pavimento del terrazzo, ora ridotto ad un prato, era in origine piastrellato in mattoni, e le grate delle caditoie erano apribili. L'opera è dotata di una cisterna, capace di contenere 80 metri cubi d'acqua. Il retrostante terrapieno pentagonale alla caserma, ospitava l'armamento; cinque grandi obici posizionati verso nord, e due cannoncini a difesa dell'ingresso. Il forte è raggiungibile (esclusivamente a piedi) lungo un sentiero che inizia dal Forte Sperone e tocca il Forte Puin, passando a breve distanza dai Due Fratelli. In alternativa si può utilizzare il pittoresco Trenino di Casella partendo dalla stazione nei pressi di Piazza Manin e scendendo alla fermata di Trensacco, frazione di Sant’Olcese, facilmente raggiungibile anche in automobile da entrambe le vallate. Dal valico di Trensasco un ripido sentiero raggiunge la vetta del monte e il forte in circa 40 minuti di cammino. Arrivati in cima al Diamante si trova l'ingresso del forte, anticamente dotato sia di ponte levatoio che di stemma sabaudo. Il forte è ormai sprovvisto delle strutture in ferro, tra cui le grate a protezione delle caditoie, asportate durante la seconda guerra mondiale. La cinta esterna segue e difende il camminatoio coperto. Sopra l'ingresso di una delle due stanze del piano terra s'intravedono ancora le scritte d'uso ottocentesche. Nonostante lo stato di abbandono, la struttura, considerata anche la posizione dominante sugli Appennini e la tipologia di fortificazione, è molto scenografica e affascinante.
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